Coronavirus: la strategia coreana

maurizio mensiMaurizio Mensi
Direttore esecutivo MENA OCSE  Governance Programme Training Centre, Professore SNA e Luiss Guido Carli

Qualcuno ritiene che nelle situazioni di emergenza i regimi dittatoriali si dimostrano più efficaci delle democrazie: una catena di comando chiara, decisioni rapide eseguite senza discutere, un controllo capillare del territorio. Ma il caso del coronavirus dimostra il contrario: la Corea del Sud è infatti un buon esempio di come ci si prepara e si affronta un’emergenza facendo tesoro dell’esperienza pregressa, con un sistema di regole e procedure allineato agli strumenti offerti dall’innovazione tecnologica basati su Big Data, sistemi di controllo basati sull’intelligenza artificiale, accurati metodi di rilevazione.

I dati parlano chiaro: in quel paese il tasso di mortalità è dello 0,69% dei contagi, superiore solo a Singapore, a dimostrazione del successo di una strategia basata su formazione, trasparenza e capacità di mobilitazione della società civile.  A differenza della Cina, che ha isolato una provincia di oltre 60 milioni di persone per cercare di impedire la diffusione della malattia, la Corea non ha limitato la libertà di movimento, ma ha sottoposto a test centinaia di migliaia di persone, riuscendo a contenere il virus a Daegu, la città a circa 150 miglia a sud di Seoul, dove si sono verificati la maggior parte dei circa 8.000 casi. Sull’altro piatto della bilancia occorre peraltro collocare i profili problematici connessi alla natura e all’invasività degli strumenti utilizzati, con i conseguenti rischi per la libertà individuale e la protezione dei dati personali dei cittadini coinvolti.

Senza dubbio lo strumento vincente è stata la capacità di sottoporre a controlli (gratuiti e facilmente accessibili), eseguiti rapidamente e su larga scala, chiunque fosse ritenuto “sospetto” in virtù di un sistema sanitario che dispone di una rete di 96 laboratori pubblici e privati. In tal modo è stato localizzato e limitato il contagio: I5 mila persone controllate al giorno, oltre 230 mila dal 3 gennaio ad oggi (negli Stati Uniti ad oggi sono circa 10 mila i test effettuati), 53 stazioni di controllo mobili (“drive through”) lungo le strade, segnalate agli automobilisti che non debbono neppure scendere dall’auto per fare un test (che dura 10 minuti e non comporta alcun contatto fisico con i sanitari). Se una persona infetta vive o lavora in un grande edificio, vengono subito istituiti centri medici temporanei per controllare tutti i residenti in loco. Coloro che rientrano in Corea dopo un viaggio all’estero devono installare un app di autodiagnosi sullo smartphone e comunicare i dati sul proprio stato di salute ogni giorno per 14 giorni.

L’analisi dei dati tramite l’intelligenza artificiale tiene costantemente informato il governo sui possibili focolai e sulle aree a maggior rischio, consentendo così l’intervento tempestivo dei servizi medici e le più adeguate iniziative di sensibilizzazione. Regole e processi operativi sono disegnati dall’intelligenza artificiale. Ognuno deve usare la propria carta d’identità per acquistare non più di due mascherine per volta presso il negozio più vicino. E’ la disponibilità di dati e la loro analisi a consentire al governo di mobilitare capacità tecnologiche e logistiche per interventi mirati.

Il mantra è “tracciare, controllare, trattare” e la parola d’ordine: “se io so, evito di essere un pericolo per gli altri”. Alla base, la convinzione che solo la tempestiva rilevazione di una persona infetta mediante un controllo accurato, seguito se del caso dall’isolamento, evita il diffondersi del virus abbassando il tasso di mortalità.

Il sistema sanitario coreano è stato molto migliorato dal 2015, quando un focolaio di MERS (Middle East Respiratory syndrome) aveva provocato la morte di 36 persone. Allora a causa della mancanza di kit per testare l’agente patogeno, i pazienti infetti avevano vagato da un ospedale all’altro contribuendo al diffondersi dell’epidemia. Di qui la necessità di far tesoro di quell’esperienza. Da allora Il paese dispone di una procedura accelerata per l’approvazione dei kit di controllo.

Ecco perché non appena si è diffuso il Covid-19, le autorità hanno attivato rapporti di collaborazione con aziende biotecnologiche locali e ricercatori per sviluppare i kit diagnostici basati sulla sequenza genetica del virus. Sviluppato dalla società Seegene (sono quattro quelle abilitate a produrli) avvalendosi di un sistema di intelligenza artificiale basato sui Big Data, il kit per il test è stato autorizzato all’uso in una settimana. Il suo risultato, con una precisione del 98%, arriva in meno di quatto ore e viene comunicato all’interessato per telefono se è positivo o via sms se negativo.

E’ evidente come alcune delle misure adottate siano alquanto controverse da punto di vista del rispetto delle regole in tema di privacy: così come peraltro avviene in Cina e Israele, le persone infette vengono isolate (senza che i loro nomi siano rivelati) e i loro spostamenti pregressi tracciati su di una mappa online aggiornata.

In seguito ad accordi con le compagnie telefoniche, le autorità coreane inviano giornalmente avvisi sul numero di casi rilevati e sugli spostamenti delle persone che si sono rivelate infette tramite sms e specifiche app mobili, come Co100, che allerta gli utenti che si avvicinano a meno di 100 metri al luogo in cui si è trovato un contagiato. A tutte le persone che si trovano nelle sue vicinanze vengono forniti i dettagli delle sue attività e dei suoi spostamenti nelle due settimane precedenti tramite notifiche sul cellulare. I servizi sanitari ricevono poi informazioni sui contatti della persona, facilitando il monitoraggio di coloro che l’hanno incontrata durante quel periodo e che sono sottoposti a osservazione e test medici. Tutte le informazioni utili, per esempio su dove sia possibile comprare mascherine protettive, sono pubblicate su appositi siti web (Coronamap e Coronaita) e tramite il servizio Cloud del portale Naver.

E l’intelligenza artificiale a garantire la rapida esecuzione dei vari interventi. Ospedali, servizi di ambulanza, laboratori di test mobili: tutti si affidano al settore IT e alla tecnologia per fornire servizi rapidi ed efficienti, sulla base di un efficace modello di cooperazione pubblico-privato. Negli USA sono in corso contatti fra Facebook, Google e la Casa Bianca per consentire la condivisione dei dati personali relativi ai movimenti dei cittadini finalizzati al contrasto dell’epidemia.

Ma è evidente come la legittimità di tali pratiche sia condizionata alla circostanza che si tratti di misure proporzionate, limitate nel tempo e al perdurare dell’emergenza, oltre che a quanto necessario per contenere il contagio, senza il fine di sorvegliare i cittadini o creare banche dati contenenti i dati personali dei cittadini da gestire per future evenienze. Sono infatti raccolti e trattati dati personali delicatissimi, che attengono alle condizioni di salute di una parte rilevante della popolazione, ove il rischio per i diritti e la libertà degli interessati è molto alto, data la natura, l’ambito di applicazione, il contesto e le finalità dei trattamenti posti in essere dalle autorità. In casi del genere le norme europee prevedono sia altresì necessario definire con precisione chi può trattare i dati e per quale finalità, ma soprattutto che siano adottate puntuali misure di sicurezza.

Anche in Corea del Sud i maggiori eventi sono stati cancellati, le funzioni religiose spostate online, le scuole chiuse, i dipendenti pubblici invitati a lavorare da casa, un’azione informativa capillare da parte del governo ha persuaso i cittadini ad allontanarsi da Daegu, l’area più colpita dal contagio, ma le misure preventive non hanno comportato chiusure, blocchi stradali o restrizioni alla circolazione. E poco a poco la gente sta ora tornando ad affollare la strade e i parchi di Seul, così come i ristoranti, gli autobus, la metropolitana.  

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