Lo Smart Working alla prova del Coronavirus

La storia dello Smart Working

La nascita del termine

Il termine “Smart Working”, sebbene sia entrato solo di recente prepotentemente nelle nostre vite,
ha in realtà una storia lunga e complessa, in particolar modo in Italia. Questo modo innovativo di concepire il lavoro iniziò a svilupparsi nel corso degli anni ’90, grazie all’opera di manager illuminati come Erik Veldhoen, i quali cominciarono per primi a sognare un futuro senza più la necessità di lavorare in uffici freddi e formali. L’idea di base di tale progetto era quella di dotare l’impiegato di maggior autonomia organizzativa, consentendogli così di bilanciare al meglio le proprie esigenze.
Durante gli anni ’10 del Duemila, l’interesse verso il concetto di Smart Working crebbe in modo esponenziale, tanto che due esperti del fenomeno ne pubblicarono addirittura una sorta di manifesto[1].

Una ricerca sullo Smart Working

Nel 2017, una ricerca condotta da Eurofound e dall’Organizzazione Mondiale del Lavoro, denominata “Working anytime, anywhere: The effects on the world of work”, mise in relazione i Paesi dell’Unione Europea con altri Stati nei quali questa pratica di lavoro era già molto più diffusa.
I dati che emersero mostrarono come l’Italia fosse all’ultimo posto, nel Vecchio Continente, sia riguardo alla possibilità per i lavoratori di accedere a modalità di Smart Working che alla sua propagazione. Nel nostro paese, infatti, il termine è quasi sempre stato associato a connotazioni negative, fra le quali spiccano il calo della produttività e il taglio dello stipendio, a cui bisogna sommare il disagio causato dalla generale scarsità di infrastrutture digitali sul territorio nazionale.

La Legge sul Lavoro Agile

Tuttavia, dopo un periodo sperimentale caratterizzato da vuoti legislativi e incertezze terminologiche, la legge numero 81 del maggio 2017 (meglio nota come Legge sul Lavoro Agile) ha finalmente regolato la materia del lavoro da remoto. La normativa ha definito accuratamente lo Smart Working in tutti i suoi aspetti giuridici, evidenziando soprattutto la parità di trattamento economico e normativo per il dipendente e il diritto all’apprendimento permanente, oltre a tutti quegli aspetti legati alla salute e alla sicurezza informatica. Sebbene in questo modo le aziende italiane più grandi e di respiro internazionale abbiano iniziato a capire le potenzialità del Lavoro Agile, cominciando di conseguenza a farne uso, le medie e le piccole imprese locali rimasero sempre molto scettiche riguardo la possibilità di attuarlo efficacemente.

Una riflessione sul rapporto tra Lavoro Agile e pandemia

Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri

Nel corso della recente emergenza sanitaria legata al Covid-19, l’interesse mediatico per il tema dello Smart Working si è riacceso improvvisamente, divenendo uno dei temi chiave delle misure restrittive per la prevenzione ed il contenimento della pandemia.
Difatti, sin dalle prime fasi dell’allarme, molte aziende hanno optato per le pratiche di lavoro a distanza, supportate anche dalle norme inserite nel decreto attuativo numero 6 del 23 febbraio 2020. In tale ordinanza, ai fini di ridurre il numero di contagi, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha così favorito l’adozione e la diffusione dello Smart Working come misura straordinaria di sicurezza per i lavoratori, rendendolo addirittura attuabile immediatamente senza accordi preventivi con i dipendenti.

Il saggio di Hall

Nonostante tale decreto sia stato giustamente dettato da una condizione di assoluta necessità, il boom del cosiddetto Lavoro Agile rischia di rivelarsi nel tempo una lama a doppio taglio, mettendo in crisi la delicata relazione venutasi a creare tra mondo reale e mondo digitale.
L’attuale rapporto tra lo spazio reale e quello simulato si è affermato progressivamente attraverso l’uso di vecchi e nuovi dispositivi mediali per la gestione della spazialità. Un’improvvisa accelerazione potrebbe infatti minare l’affascinante equilibrio situato al livello microculturale delle manifestazioni prossemiche. Come affermato da Hall nel suo saggio “L’antropologia dello spazio: un modello di organizzazione”[2], lo spazio preordinato è alla base di tutte le attività sociali ed individuali, guidando e condizionando il comportamento dell’uomo.

Lo Smart Working e la planimetria degli edifici

Anche la planimetria degli edifici è espressione degli schemi preordinati, sia che si tratti di uffici che di abitazioni private. L’interno di queste ultime, in modo particolare, è organizzato spazialmente secondo un’armonia ben precisa dettata dai più intimi bisogni del singolo. Scombinare questo prezioso equilibrio interiore può avere conseguenze assai gravi, disorientando l’individuo e compromettendo il suo naturale bisogno di sopravvivenza e di sanità. La struttura preordinata delle moderne case, così radicata ed innata eppure abbastanza recente, è basata sulla specializzazione dei vani dell’abitazione secondo le varie funzioni e sulla privacy derivata dalla separazione delle stanze. L’azione combinata dello Smart Working e della quarantena, specialmente nel caso di famiglie numerose, può portare alla prolungata reclusione forzata degli individui in difficili situazioni di sovraffollamento negli ambienti domestici.  

Lo Smart Working e la necessità di spazi sociali

Il pensiero di Goffman

Oltre allo stress e agli ovvi disagi generati da tale costrizione, non bisogna di certo dimenticare la motivazione per la quale ben pochi uomini d’affari svolgono il loro lavoro in casa: la necessità, cioè, di tenere perfettamente separate tra loro quelle due differenti identità che caratterizzano ogni persona.
Infatti, come già ipotizzato da Goffman ne “La vita quotidiana come rappresentazione”[3], gli individui tendono a adottare delle distinte personalità da riservare alla casa e all’ufficio sforzandosi sempre di evitare che si sovrappongano, spesso proprio a causa della loro profonda incompatibilità.
In tal modo, l’essere umano riesce a nascondersi dietro a delle facciate supportate dalle diverse tipologie di strutture architettoniche, realizzando varie immagini di sé conformi di volta in volta ai dettami ambientali e spaziali, precetti caratteristici dei più disparati luoghi che si trova a frequentare.  

Spazi di fuga sociale e spazi di attrazione sociale

La repentina instabilità dell’armonia domestica si riflette naturalmente anche sulla restante parte
del nucleo familiare: ogni componente si ritrova così a dover gestire costantemente gli schemi microculturali di tutti gli altri, spesso senza neanche riuscire a trovare rifugio in adeguati spazi di fuga sociale. Considerando il contesto socioculturale odierno, nel quale spicca una generale riduzione degli stipendi e una crescente domanda abitativa nelle città, le dimensioni delle case si sono di conseguenza inevitabilmente rimpicciolite. Tutto ciò comporta che i normali spazi di attrazione sociale, come il soggiorno o la sala da pranzo, risultino perennemente affollati. Difatti, se tra il progetto architettonico e la funzione specifica degli ambienti non c’è coerenza né flessibilità, il numero di situazioni spaziali che si potranno venire a creare sarà estremamente ridotto, mantenendo stabile il livello di coinvolgimento delle persone presenti all’interno senza tener conto di altri fondamentali fattori, per esempio i legittimi cambiamenti legati all’umore o alla voglia di socializzare.

La mia personale considerazione finale

In conclusione, basandoci su ciò che sta accadendo in un momento di crisi come quello attuale, si può facilmente dedurre che l’impiego su larga scala delle tecniche di lavoro da remoto non si rivela essere la soluzione migliore per conciliare un’elevata produttività con la solidità delle relazioni affettive.

Più precisamente, sebbene il Lavoro Agile abbia delle enormi potenzialità, quali la flessibilità bilaterale, l’ottimizzazione dell’organico e una miglior gestione delle eventuali cause di assenza,
non tutti i dipendenti possono risultare idonei per l’applicazione di questo metodo innovativo.
Uno dei pilastri che reggono lo Smart Working è, appunto, la selezione pregressa di persone adatte a svolgerlo correttamente; ovvero preferibilmente coloro che hanno sempre dimostrato di possedere un forte senso di responsabilità e grandi capacità di autogestione, oltre ad un valido network aziendale.

Insomma, l’esperienza straordinaria di tale modalità di esecuzione del rapporto lavorativo durante la pandemia di Coronavirus ha, senza ombra di dubbio, contribuito a mettere in evidenza i pregi e i difetti di questa nuova realtà della nostra epoca; dove il mondo reale e quello digitale sembrano combinarsi insieme per fornire agli utenti risorse pressoché illimitate, lasciando infine a chi di dovere il compito di organizzarle al meglio secondo le possibilità di ciascun individuo e le caratteristiche di ogni spazio.


Riferimenti:

[1] Clapperton, G. Vanhoutte, P. Il manifesto dello smarter working, Milano, Este, 2014

[2] Pezzini, I. Finocchi, R. (a cura di) Dallo spazio alla città. Letture e fondamenti di semiotica urbana, Milano, Mimesis, 2020

[3] Goffman, E. La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1997

Michele Mattei

Nato a Tivoli nel 1994, dopo il diploma di maturità scientifica si è laureato in Comunicazione Pubblica e d’Impresa e in Media, Comunicazione Digitale e Giornalismo presso la facoltà di Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione dell’Università degli Studi di Roma "La Sapienza". Appassionato di storia e di sostenibilità, attualmente scrive articoli per diverse testate e si occupa di volontariato con il Servizio Civile Nazionale in ambito sociale, culturale e ambientale.